Inquinamento, clima e Coronavirus: il rischio di un circolo vizioso

Dopo quasi due mesi di lockdown per contrastare il diffondersi del Coronavirus, l’Italia e gran parte dell’Occidente si avviano alla cosiddetta “Fase 2”, attraverso una graduale riapertura delle attività produttive e ricreative. Recenti evidenze hanno mostrato come uno dei nodi più complessi dei nuovi scenari post-COVID sarà senza dubbio l’inquinamento, con il conseguente tema dei trasporti collettivi.

Il lockdown ha fatto bene all’aria che respiriamo

In questo periodo di forzata reclusione, gli animali si sono riappropriati di spazi generalmente fortemente antropizzati: sul web è un fluire di delfini nei porti, anatre sui marciapiedi, o addirittura scimmie che invadono le città deserte. E’ la rappresentazione più visibile della natura che riprende vigore, approfittando della pausa che le sta concedendo l’uomo. I risultati più significativi sono però ad un primo impatto invisibili agli occhi, e riguardano l’inquinamento.

Italy For Climate (I4C), iniziativa di studio della Fondazione Sviluppo Sostenibile, presieduta da Edo Ronchi (cattedratico e Ministro dell’Ambiente per tre governi), stima che in Italia nel mese di marzo il calo delle emissioni di CO2 da combustibili fossili sia stato pari a circa il 17%. I dati su aprile, per quanto ancora incompleti, vanno nella direzione di riduzioni ancora più marcate. Fa particolarmente impressione il comparto dei trasporti: si stima per quest’ultimo un calo delle emissioni di oltre il 46%. Significative sono le foto del satellite Copernicus Sentinel-5P dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), che evidenziano come il lockdown nel continente abbia portato al crollo del biossido di azoto (NO2), inquinante principale che si forma nei processi di combustione come il traffico:

Del resto, si segnalano in più parti del mondo, dalla Cina all’India, dalla Colombia al Brasile, gli stessi effetti positivi: le città un tempo più inquinate del mondo stanno finalmente respirando di nuovo.

E se il Coronavirus fosse legato anche all’inquinamento?

Tornando all’Europa, fa particolarmente impressione il confronto in Pianura Padana: abitualmente stretta fra Alpi ed Appennini, ciò la rende una specie di “vasca”, dove si accumula più facilmente l’inquinamento atmosferico. Riprova ne è lo sforamento dei limiti di PM10, la frazione di particolato prodotto, tra le altre cose, dai motori a scoppio, dall’usura di pneumatici, dei freni e dell’asfalto – ossia, dal traffico veicolare. Nel 2019, a Milano si sono verificati 72 giorni di superamento della media giornaliera di 50 mg/m3 di PM10, la soglia fissata come massima per legge. Secondo il dossier di Legambiente “Mal’aria di città 2020”, non va meglio al nord-ovest, con Torino che segna 86 giornate, o a nord-est (Rovigo, 69). Nel complesso, la top twenty da sforamenti di PM10 vede ben 19 città su 20 localizzate in Pianura Padana. Un dato impressionante, ben riassunto dall’immagine sottostante, sempre scattata dal satellite Copernicus dell’ESA fra gennaio ed aprile 2019:

E’ cosa nota che Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna sono le regioni più colpite dal Coronavirus. Tuttavia, leggendo i dati del Robert Koch, l’istituto che in Germania sta mappando i casi di COVID, si apprende che i Lander più colpiti sono la Baviera, la Renania Settentrionale-Vestfalia e il Baden-Württemberg, ossia le regioni più inquinate secondo le rilevazioni dell’ESA – ma anche quelle più economicamente sviluppate, così come la Pianura Padana in Italia. Si obietterà che le aree più industrializzate sono anche le più popolose: eppure, l’incidenza del Coronavirus è stata inferiore nella regione di Berlino, o Amburgo, o a Roma e Napoli (nonostante l’elevatissima densità abitativa). Quindi, forse, il problema risiede nel combinato disposto di popolazione e inquinamento.

Del resto, fin dall’inizio dell’epidemia, da più parti si è ipotizzato che un veicolo di trasporto del COVID potesse essere proprio l’inquinamento da polveri sottili: il 20 marzo, la virologa Ilaria Capua si interrogava sulle anomalie dei dati lombardi, magari in relazione alla qualità dell’aria, mentre Antonietta Gatti, fisica delle particelle, richiamava diversi precedenti scientifici. Quest’ultimi dati sono ripresi dalla ricerca della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), che annuncia lo scorso 24 aprile come il Coronavirus sia stato ritrovato sul particolato.

Contrastare l’aumento dell’inquinamento per limitare il contagio: l’importanza dei trasporti collettivi in Italia

Appare dunque chiaro che il ritornare ai livelli di inquinamento pre-COVID potrebbe rappresentare benzina sul fuoco per il diffondersi nuovamente del virus. In questo senso, i precedenti storici non sono incoraggianti: come riporta Internazionale, il Coronavirus potrebbe non essere una buona notizia per il clima. Infatti, le politiche espansive post-crisi economiche hanno portato, dal secondo dopoguerra in poi, ad un aumento dei tassi d’inquinamento, causati da un maggior supporto alle industrie, lo stimolo della propensione al consumo dei cittadini ed una conseguente minore attenzione alla salvaguardia dell’ambiente. Ciò è avvenuto con le crisi del petrolio degli anni ’70, la fine dell’Unione Sovietica del 1991, o la crisi economica del 2008, come mostra questo grafico della Globan Carbon Project:

Emissioni globali di CO2 (da Global Carbon Project, Global Carbon Budget 2019, pag. 66)

Tuttavia, la ripresa post-crisi economiche non aveva mai coinciso con la presenza di un virus altamente trasmissibile in ambienti affollati. Ciò porta ad un circolo vizioso: la paura del contagio che caratterizzerà la Fase 2 spingerà probabilmente molte persone all’utilizzo di mezzi di locomozione privati, comportando un aumento dell’inquinamento, che indipendentemente dalle politiche di mobilità adottate segnerà un picco in rialzo quando la produzione industriale tornerà a pieno regime.

Ciò nondimeno, è necessario porre come prioritario il tema dei trasporti, in modo che questi siano sicuri, e soprattutto percepiti come tali dalla popolazione, che quindi sarà invogliata ad usarli. E’ un tema delicato quanto attuale: infatti, negli ultimi anni gli italiani si sono mostrati sempre più propensi all’utilizzo del trasporto pubblico locale (TPL), come solamente due mesi fa evidenziava l’annuale rapporto Pendolaria di Legambiente.

Sono di ieri, lunedì 27 aprile 2020, le linee guida del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) per l’informazione agli utenti e le modalità organizzative delle aziende di trasporto per il contenimento della diffusione del COVID in tutti i comparti: aereo, marittimo, ferroviario, TPL. Leggendole, si percepisce come durante la Fase 2 sarà necessario un bilanciamento fra responsabilità individuale e aziendale: tanta dovrà essere la pazienza degli utenti nell’adattarsi ad un modo nuovo di stare negli spazi (e nei mezzi) pubblici. Tuttavia, sarà necessaria anche una diversa organizzazione del lavoro, con il più volte annunciato differimento delle aperture di aziende, attività commerciali, e, da settembre, scuole e università. Un mondo in cui alle 08:00 del mattino ci si riversa tutti per strada, in metrò, sui bus, non è più ipotizzabile. Al contempo, sarà necessario assicurare adeguati finanziamenti alle aziende di TPL e di trasporto, sia pubblico che privato, di media-lunga percorrenza: queste infatti dovranno viaggiare a regimi di piena produzione, trasportando però molti meno passeggeri per ogni mezzo. Avere corse frequenti è però l’unico modo affinché queste non siano affollate.

Il panorama italiano presenta però situazioni difformi. Nella media-lunga percorrenza, considerato che il Gruppo FS ed Alitalia fanno categoria a sé così come il trasporto marittimo, il tema sarà il sostenere economicamente le aziende di trasporto che non godono di contributi pubblici, ma che assicurano la mobilità di milioni di cittadini per anno (si pensi a Italo, EasyJet, Ryanair, FlixBus). Queste però hanno il più delle volte flotte moderne ed efficienti, e sono realtà strutturalmente sane.

Situazione diversa riguarda invece il TPL, che presenta punte di eccellenza (una su tutte, l’ATM di Milano) a situazioni difficilissime (come ATAC a Roma o ANM a Napoli). Qualche dato a titolo esemplificativo, sebbene non esaustivo: ATM dispone di più di 170 treni per le quattro linee della metropolitana meneghina, mentre l’ANM di Napoli può contare su 8 veicoli. Considerando il numero di passeggeri annui al 2019 (365 milioni sulla rete milanese, 45 milioni su quella partenopea), significa che in media ogni treno ha trasportato a Milano 2,1 milioni di persone l’anno, mentre i convogli napoletani più del doppio: 5,6 milioni. Forse ancora più drammatico, seppur più facilmente risolvibile, è il tema degli autobus. Ciò nondimeno, indipendentemente dalle flotte a disposizione, immaginare soluzioni di breve-medio periodo per contrastare il Coronavirus non è facile per nessuna azienda di TPL.

Nell’enorme sforzo economico che il Paese è chiamata a fare, dovrà essere fondamentale il potenziamento delle linee su ferro cittadine e l’aumento delle dotazioni di bus, filobus e tram. Se è vero, come da più parti si afferma, che il COVID potrebbe segnare le nostre vite per i prossimi 4-5 anni, è anche da considerare che questo è un orizzonte di breve-medio periodo per gli investimenti in mobilità, che richiedono tempo, continuità amministrativa e finanziamenti stabili. Il mondo che verrà fuori dalla prima pandemia del nuovo Millennio non potrà essere uguale a prima, soprattutto nel campo trasportistico, dove si scontano, in certe realtà, drammatici ritardi nella programmazione delle reti di trasporto e l’assenza di revisione dei modelli di organizzazione aziendale. Negli ultimi anni, dalla gestione di Graziano Delrio del MIT, l’Italia aveva intrapreso azioni importanti e senza precedenti in questo campo. E’ dunque necessario tenere ferma la bussola di questo processo di riforma, soprattutto ora che il mondo è stato scosso dal COVID: le evidenze scientifiche ci sono, e la lezione è stata dura quanto chiara. Speriamo non sia inutile.

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